Onore a Passannante e morte a tutti i re

Il 17 novembre 1878 Giovanni Passannante attentò al re Umberto I con un piccolo coltello. Il giovane fallì nell’intento e da quel momento in poi conobbe solo strazi, che perdurarono anche dopo la sua morte. Il cranio e il suo cervello vennero sepolti a quasi un secolo dalla morte, dopo essere rimasti in esposizione al Museo Criminologico di Roma. Al suo paese d’origine venne cambiato il nome da Salvia a Savoia di Lucania, per ribadire la fedeltà del comune della Basilicata alla corona. Questa intitolazione permane ancora oggi, ma anche cento anni dopo la sua scomparsa, nascono nuove canzoni che inneggiano all’attentatore lucano, seguendo il solco dei componimenti popolari che fiorirono in tutta la penisola sin da quel fatidico 17 novembre.

1 AIRESIS – PASSANNANTE

Nel 2010 gli Airesis pubblicano “Traccia una rotta”, un concept album che con cinque canzoni mette in musica le biografie di altrettanti personaggi storici di varie epoche, celebri per i più disparati motivi. La band, che preferisce definirsi come un collettivo di artigiani che producono canzoni, spiega nelle pagine del booklet che il filo che collega le varie tracce non è un’idea ma bensì un intento comune: “Scegliere dove andare. Tracciare da soli la propria rotta. Seguirla”.

Si incomincia con Ferdinando Magellano, l’unico di questi ad aver concretamente disegnato su una cartina un tragitto che poi seguì. Si prosegue col racconto del gappista torinese Dante di Nanni; seguito da Tommie Smith, atleta statunitense e black panther immortalato per sempre sul podio dei 200 metri assieme a Carlos e Norman durante le Olimpiadi di Città del Messico. Dopo la poesia “Ordinanza all’Esercito dell’Arte” di Majakovskij, arriva la canzone che ricorda Giovanni Passannante.

Volavano dovunque mille parole, / la famiglia reale era in visita alla città. / Riempiva Napoli un via vai senza sosta, / ma che gran bella festa / quando passava sua maestà!”. Il testo ci proietta nella festosa città partenopea del 1878 in cui Umberto I, eletto da pochi mesi, si reca in visita dopo essere passato per le altre principali città italiane. “Lui vendette la giacca per comprarsi un coltello / E nasconderlo in un fazzoletto rosso, / convinto che non fosse il gesto di un pazzo / si mise ad attendere il proprio turno. / Ed era come partire, era come cadere / Nel vuoto senza fine / Dell’inevitabilità.”

Nelle strofe si susseguono precisi riferimenti alla vicenda storica narrata. Nel libretto del cd, per ogni personaggio, compaiono infatti una citazione e una lettura consigliata sull’argomento per approfondire da un punto di vista storico-letterario la vita di chi ha preferito “violare un confine, piuttosto che tracciare un altro limite”. “Il Re si avvicinava, un varco si apriva, / lui in un soffio diceva: / «nessuno mi fermerà». / Non ho una fede, non ho una bandiera, / ma nemmeno paura / e alla mia mano questo basterà.”

Nell’album gli Airesis omaggiano cinque persone che hanno cercato di rompere “l’incantesimo che rende schiavi della paura gli uomini e dell’ingiustizia i popoli”: fu infatti Passannante a spezzare “l’incantesimo di Casa Savoia” compiendo il primo attentato ai danni di un regnante sabaudo.

Salì sulla carrozza, scomparve la piazza, / scomparvero il mare, le idee, la gente, / il tempo collassava dentro l’istante / e partiva la mano di Passannante.”

In “Traccia una rotta” gli Airesis proseguono la loro vocazione, dedita ad un punk hardcore californiano, innestandovi dei testi figli del cantautorato italiano, dimostrando che si può ferire senza per forza picchiare durissimo. Nei brani del disco ricorrono insoliti elementi come l’assenza del ritornello, o l’irrompere di altre voci alla declamazione dei versi, che rendono unico lo stile di questi eretici romani che professano il loro credo a suon di riff. Tra pause improvvise, e frenetiche ripartenze si giunge alla citazione di una poesia di Giovanni Pascoli, mai integralmente pervenuta. In coro infatti cantano: “Ci sarà storia se / Con la berretta del cuoco / Faremo una bandiera”, riproponendone gli ultimi versi tramandati oralmente, che fanno riferimento alla professione principale svolta dall’anarchico lucano.
Passannante fu arrestato e condannato all’ergastolo. La sua famiglia internata in un manicomio criminale. Al suo paese fu cambiato nome e lui fu rinchiuso in una cella di due metri per uno, alta un metro e cinquanta, con diciotto chili di catene addosso. Nella completa e muta oscurità per dodici anni, prima di essere trasferito al manicomio dove infine morì. L’arma con cui aveva attentato al Re, graffiandolo ad un braccio: un temperino di otto centimetri”. La canzone termina con un parlato che conclude il racconto del protagonista. Per i tempi che un pezzo punk ha a disposizione, il brano non poteva essere più esaustivo nel raccontare l’aspirazione e le pene patite da Passannante.

2 SALVO RUOLO – PASSANNANTI

L’album “Canciari patruni un è l’bittà” di Salvo Ruolo si ispira ai protagonisti del “Far West nostrano”, ovvero ai briganti, ai partigiani ed agli anarchici dell’ex Regno delle due Sicilie. Le canzoni dell’artista siciliano, trapiantato a Padova, si schierano dalla parte degli sconfitti e delle vittime della “piemontizzazione” forzata del Meridione. L’album è figlio di una lunga gestazione, l’autore ha infatti amalgamato un folk-rock con i temi storici molto precisi e dettagliati dei brani, rigorosamente cantati in siciliano antico.

Seppur un pugno di canzoni “Cambiare padroni non è libertà” (come sarebbe il titolo tradotto) è un’opera da non sottovalutare. Esplicativo fin dal titolo e dalla copertina, che ritrae dei briganti sulle montagne di un antico disegno, l’album può invece risultare ostico nella comprensione dei testi. La scelta di un idioma non più in uso corrente, nemmeno nell’isola mediterranea, è frutto di una decisione precisa di Ruolo che, oltre a ricreare una colonna sonora per episodi e biografie di ribelli misconosciuti, della Sicilia ha voluto omaggiare anche la lingua.

Accanto a celebri nomi del brigantaggio e di ribelli siciliani di epoche successive, nel disco trova spazio anche Giovanni Passannante. “Nenti hieni giustu e nenti hie’ virita’ / Ne’ principiu o fini ppi Passannanti / Assicutoi o re e ’un putia ‘rrivari / A stuccari u tirannu” (Niente è giusto e niente è verità / Nessun inizio o fine per Passannante / Ha rincorso il re ma non poteva riuscire / A colpire il tiranno). Uno dei simboli della lotta all’oppressione sabauda, importante non solo per le istanze dei meridionali più poveri, ma più in generale per tutti gli sfruttati, come riporta anche l’autore.

Sulu ‘nta stu ‘nfernu i pottufirraru / Da torri linguella ‘a muntilupu / Cu l’occhi ruvessi ‘ndrinucchiatu / Passannanti stralusia” (Solo in questo inferno di Portoferraio / Dalla torre Linguella a Montelupo / Con gli occhi rovesciati, sulle ginocchia / Passannante è impazzito). L’attentatore d’ispirazione anarchico-repubblicana venne infatti condannato a morte dopo il fallito regicidio, la pena verrà poi tramutata in ergastolo che sconterà dapprima all’Isola d’Elba, nelle condizioni descritte nei versi precedenti, poi nel manicomio criminale di Montelupo Fiorentino, dove morirà nel 1910.

La ballata ha forti influenze americane nello stile e il ritornello incarna le invettive anti-monarchiche di tutta quella fascia di popolazione che espresse la propria solidarietà all’attentatore in vari modi. “Unuri a Passannanti e motti a tutti i re’ / Unuri a Passannanti e motti o re’” (Onore a Passannante e morte a tutti i re / Onore a Passannante e morte al re). La canzone è corredata da un video che in un rapidissimo montaggio mostra la vicenda del cuoco lucano, alternando fotogrammi di un prigioniero sempre più straziato nella sua reclusione, con foto e documenti d’epoca.

U Savoia hie’ ‘nto tabbutu / Passannanti campa / Ogni valenti resta pirdituri / Hiavi a lingua e ‘un po’ parrari” (Il Savoia è nella cassa da morto / E Passannante e’ vivo / Ma ogni uomo valente resta un perdente / Ha la lingua ma non può parlare). Nel finale Salvo Ruolo anticipa le sorti di Umberto I, dopo l’attentato del 1878 infatti anche Pietro Acciarito tenterà l’impresa, ma sarà Bresci a fare centro nel 1900, il cuoco lucano gli sopravvisse.

3 UNÒRSOMINÒRE. – TESTAMENTO DI GIOVANNI PASSANNANTE, ANARCHICO ITALIANO

Io ti ucciderò, / con un coltello nel fianco, / con un colpo nel cranio / giuro lo farò”. Con questa proclamazione di intenti, tanto semplice quanto cruda si apre la canzone di Unòrsominòre. (scritto con questa particolare punteggiatura) dedicata a Passannante. Essa compare nell’album “La vita agra” del 2011 e porta la firma di un artista veneto che prende ispirazione dalle composizioni di cantautori italiani come Gaber e De Andrè, con ammirazione anche per il rock d’oltremanica. Con un approccio anche intimista ed esistenzialista miscela un ruvido rock’n’roll a delicati dettagli pop.

Nei testi si nota l’influsso di temi sociali e politici di attualità, che vengono proposti per creare spunti di riflessione che possano far mutare aspetti dell’esistente. Per Unòrsominòre. di canzoni inutilmente rassicuranti è già pieno il mondo e “Testamento di Giovanni Passannante, anarchico italiano” è una di quelle che magari divideranno il suo pubblico. Ma per lui la musica alternativa deve anche fare controcultura oltre che ascolti. Unòrsominòre. si può inserire nell’universo dell’indie, che a suo dire è sempre meno indie.

Nella canzone tutto il testo viene sputato nel primo minuto e mezzo su chitarre grunge, per lasciare spazio a suoni più evanescenti e cosmologici, in un continuo barcamenarsi di melodie dissonanze e distorsioni. “Io non amo il mio padrone, / io non ti sarò fedele, / non ti resterò a guardare / quando parli dal tuo balcone”. Nei versi successivi emerge una delle motivazioni che spinse il cuoco lucano a compiere il suo gesto. Egli voleva “mortificare” il re per richiamare i “morti di fame che l’acclamano perché ad essi ha ribadito sui polsi la schiavitù, nei ventri la miseria e la fame”, come disse lo stesso Giovanni al processo. “Mostri i denti e mi fotti il pane, / io non starò a guardare / non starò a guardare, / ecco perché io lo farò, / guardando dritto negli occhi / che tu possa vedermi / giuro lo farò, / davanti a tutti i tuoi sbirri.”

Il brano fa riferimento ad uno dei tanti gesti insurrezionali che in quel periodo caratterizzarono l’azione di determinati ambienti politici. “Se solo potessi dirvi / che conta solo non restare fermi, / che è meglio morire che vivere servi, / che dalla mia prigione / dove impazzisco / da questa prigione / io voialtri cani vi compatisco”. L’epilogo proposto è quello di narrare l’ultimo periodo di reclusione, in cui Giovanni impazzì, dopo aver trascorso anni e anni in una cella al di sotto del livello mare, al buio, completamente isolato e legato a catene di diciotto chili.

En.Ri-Ot

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